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Marchisio: “Una volta ero viziato. A Empoli con mia moglie ci siamo anche scannati, poi..”

L'intervista del giocatore bianconero a Vanity Fair

Redazione Golssip

Claudio Marchisio, giocatore della Juventus ormai da più di 20 anni (tra giovanili e prima squadra, con una breve parentesi a Empoli), si è raccontato in una lunga intervista a Vanity Fair: "Sono venuto su in una famiglia in cui il lavoro ha avuto sempre un ruolo decisivo. Vedevo papà tornare a casa molto tardi, portare sul volto i segni della fatica e invecchiare giorno dopo giorno senza mai lamentarsi o perdere la calma. L’idea che il sacrificio porti sempre un risultato viene dall’esempio che mi è stato dato. Ho cercato di seguirlo, anche se all’inizio, da terzo figlio viziatissimo a cui venivano date più o meno tutte vinte, l’istinto di rinunciare a un percorso incerto fu fortissimo».

I sacrifici: «Andò che vivevo in un paesino della cintura torinese, facevo 50 chilometri al giorno soltanto per allenarmi e dopo pochi giorni, in una delle crisi adolescenziali che ogni tanto si hanno a quella età, manifestai a mia madre tutto il mio sconforto: “Il campo è lontano, continuando così perderò tutti i miei amici, non sono sicuro di voler continuare”».

E sua madre cosa disse? 
«Ribaltò il punto di vista, mi diede tutta la responsabilità della scelta: “aspettiamo un mese, poi se sarai ancora stufo lascerai il calcio”. Dopo tre giorni smisi di lamentarmi e non ci pensai più».

Come è nata la passione per il calcio:«Forse dalla fortuna di essere nato in un’epoca in cui la realtà virtuale era meno importante. Se oggi vai nei parchi li trovi quasi tutti vuoti. Noi nei parchi, a tirare calci a un pallone, passavamo la giornata intera. Uscivo da scuola, mangiavo in fretta, cercavo di finire di corsa tutti i compiti e poi correvo per strada con gli amici. Ci bastava poco, ma ci sembrava tantissimo»

Cosa rappresentava per lei il calcio da bambino?

«Tutto tranne che un mestiere. Non ho mai pensato al calcio come un’occasione che potesse cambiarmi la vita dal punto di vista economico. Il mio sogno era diventare un calciatore, non diventare ricco. Fino a 18 anni non sapevo neanche cosa fosse uno stipendio. Ero ancora un ragazzino che il sabato sera chiedeva tremila lire a sua madre per mangiare una pizza e infilava il bancomat per ritirare denaro senza controllare le ricevute. Un’estate, progettando una vacanza ligure con un mio amico, mi resi conto che non avevo abbastanza soldi. Se non andai in vacanza? Ci andai lo stesso perché mia madre, a mia insaputa, mi aveva fatto bloccare 500 euro al mese dalla banca. Fu una lezione importante, da allora ho imparato a gestirmi meglio».

Non perde mai la calma: «È il mio carattere. A volte vorrei eruttare come un vulcano, ma tengo tutto dentro. Magari somatizzo e poi mi sfogo, ma sempre da solo. Certi spettacoli li tengo per me».In un quarto di secolo, l’unica deviazione da Torino, per fare esperienza, si chiama Empoli.»

L'esperienza a Empoli: «Fu una scuola di vita importantissima. L’Empoli e il suo direttore sportivo Pino Vitale mi avevano voluto a tutti i costi. Una volta arrivato in provincia, a non farmi montare la testa pensò l’allenatore, Gigi Cagni. Un uomo buono che con me mostrò fin da subito la faccia dura: “Ciccio, tu verrai anche dalla Juve, ma per me non hai fatto ancora niente e devi dimostrare tutto”. Mi fece partire dalla panchina, mi insegnò a difendere, mi aiutò a calarmi nella nuova dimensione».

A Empoli con sua moglie, eravate giovanissimi: «A Empoli, senza il paracadute delle nostre famiglie, ci conoscemmo veramente. Convivevamo già da tempo, ma a Torino, se litigavamo, potevamo aprire una porta ed evadere da amici o parenti. Lì eravamo soli e avevamo soltanto 21 anni. In questo percorso di crescita, ogni tanto, ci siamo anche scannati. È stato positivo e ha rafforzato l’amore, ma qualche scena da cinema ci fu. Un giorno, dopo la partita, avevamo programmato un ritorno a Torino. L’aria – litigavamo dalla sera prima – era quella che era. Iniziammo il viaggio e all’ennesimo diverbio, a una velocità di 50/60 chilometri all’ora, lei aprì la portiera e fece per scendere. Inchiodai, urlai qualcosa, poi fino a La Spezia, anche per la paura, non aprimmo più bocca. Undici anni dopo stiamo ancora insieme».

Era sicuro di farcela ad affermarsi? «Non sopporto chi per giustificare il proprio fallimento accampa delle scuse. Una volta è colpa della testa, l’altra dell’infortunio, l’altra ancora dell’allenatore cattivo. Non ho mai creduto ai complotti o alla fortuna. Se sei forte, arrivi. Magari arrivi tardi, ma arrivi. Se non ti perdi il talento emerge, un’occasione si presenta a tutti».

(Vanity Fair)

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